domenica 18 giugno 2023

I miei primi tentativi di caviardage

 Il mio primo abbozzo/tentativo di caviardage si intitola XV, è stato fatto prendendo più o meno a caso una pagina di un vecchio libro ("I miserabili" di Victor Hugo, nella traduzione di Fiorella Bruni) e procedendo  grosso modo a caso, senza dare alle locuzioni selezionate un vero e proprio senso logico. La stessa cosa vale per il secondo tentativo, XVI.


XV

verso le tre

farfalle bianche

tutto ad un tratto

Mario esclamò

- È occupato

un uomo con un berretto in testa

la barba grigia di dietro

un poeta

vediamo dove va quell'uomo



XVI

pistole d'acciaio

le proprie arterie

battito dell'orologio

avventure strabilianti

luce rossa sanguigna

presso un sepolcro

giovedì 18 maggio 2023

Via Fratelli Rosselli

 


A pensarci bene mi piace la Via Fratelli Rosselli, Martiri della Libertà, già Via delle Ripe.

Mi piace soprattutto sulla sera, quando come da una terrazza si vede in lontananza il sole che tramonta sul mare.

Però mi piace anche verso l'ora di pranzo, quando tutti sono già chiusi in casa a mangiare e io, in ritardo, vado a piedi a casa dei miei genitori.

Mi piaceva quando era una strada sterrata, più Via delle Ripe che strada intestata alla memoria dei martiri della libertà, e io ci camminavo con le mie scarpe invecchiate da giorno lavorativo.

Non mi piacevano, tuttavia, le pozzanghere formate dalle piogge e preferisco, tutto sommato, il ruvido asfalto delimitato da un cordolo di cemento.

Mi piacciono i tombini di ghisa applicati in corrispondenza delle case, popolari o nuove che siano, a testimoniare che anche una piccola vecchia strada di campagna è diventata estrema propaggine – e non la peggiore – della nostra inciviltà.

Mi piacciono le acacie che delimitano il ciglio della strada dalla scarpata sotto la quale sorge la casa dove stava la Carlina, mitico luogo dove la mia nonna minacciava di buttarmi i giocattoli che lasciavo in disordine per la casa.

Mi piace quella via dei fratelli martiri della libertà, perché dal primo all'ultimo giorno che ci ho vissuto sono passati venticinque anni, almeno trenta centimetri di statura, la mia vita.

domenica 2 gennaio 2022

E noi come stronzi rimanemmo a guardare

E noi come stronzi rimanemmo a guardare (2021) di Pif. Con Fabio De Luigi (Arturo), Ilenia Pastorelli (Stella), Pif (Raffaello), Maurizio Marchetti (Jean-Pierre), Eamon Farren (John Fuuber), Valeria Solarino (Lisa), Maurizio Lombardi (De Spuches).

Se non fosse che per il pericolo che in questi strani tempi, di crisi economica e pandemia che si autoalimentano in circolo vizioso, la “ideologia” sottesa al film corre il rischio di essere interpretata in chiave di complottismo planetario, si potrebbe dire, con una certa dose di generosità, che quest'ultimo lavoro di Pif, nei termini e nei limiti del cinema che gli è proprio, è sostanzialmente riuscito. Certo, la tirata finale messa in bocca a John Fuuber ce la si poteva risparmiare, anche perché ormai il messaggio del film chi lo voleva capire l'aveva capito. In ogni caso, il divertimento non manca, anche grazie alla bravura e alla simpatia di tutti gli interpreti (finalmente un copione che sa mettere in evidenza il talento comico di Fabio De Luigi), con qualche gag quasi slapstick, ma anche con citazioni cinefile che vanno dal neorealismo (di Ladri di biciclette) alla Bollywood dei nostri giorni. Peccato, ripeto, per quel finale didascalico che rischia di banalizzare, con un inutile pistolotto, quanto di buono era stato detto su alcune delle piaghe sociali del presente, soffocato da eccessi tecnologici che disumanizzano i rapporti interpersonali (e lavorativi), pur fuoriuscendo dalle intenzioni di Pif la demonizzazione della tecnologia in sé, nel caso in cui essa svolga la propria essenziale funzione di aiutare le persone, anche a conoscersi e ad incontrarsi.

domenica 7 marzo 2021

Giorgio Puia

In questi giorni su Facebook circola una di quelle “catene” per cui un utente pubblica un'immagine, chiedendo ad uno dei suoi amici di fare altrettanto, senza accompagnare quell'immagine con un testo, senza dare alcuna spiegazione oltre quella contenuta nella presentazione. Altre volte erano state le copertine di un disco o di un libro, questa volta è l'immagine di un calciatore che ha condizionato il sentimento dell'utente “nominato” verso il mondo del calcio.

Voglio provare a farlo anch'io qui, però fornendo qualche parola di spiegazione.


Giorgio Puia (Gorizia, 8/3/1938). Può sorprendere che uno juventino inizi la lista dei calciatori più influenti della vita con un difensore del Torino, la rivale cittadina. La casualità del tifo, peraltro, è stata ben raccontata da Nick Hornby in Febbre a 90°: se avessi potuto scegliere a 14 anni (o più tardi), difficilmente, penso, avrei scelto la Juve. Probabilmente avrei optato per una squadra toscana o per una qualsiasi outsider (escluderei una milanese, perché non ho mai nutrito simpatia molta per il capoluogo lombardo) e mi sarei forse unito alla moltitudine rancorosa che regolarmente evidenzia i favoritismi veri o presunti per la Juve. Quella di Giorgio Puia, credo, è stata la prima figurina che mi è capitata tra le mani. Non sapevo ancora leggere e per la verità il ricordo di quella figurina mi è stato tramandato negli anni più dalla mia mamma e dalla mia nonna che dalla mia stessa memoria. Gioggiopuia (come lo pronunciavo secondo i racconti familiari), calciatore del Toro – la squadra dal grande cuore – mi ricorda da sempre che, accanto alla grande tecnica dei miei eroi bianconeri, sul campo servono anche il carattere, la grinta, la voglia di vincere.

sabato 30 novembre 2019

Tommaso Labranca, "Progetto Elvira"

Tommaso Labranca, "Progetto Elvira", ed. 20090, 2013

Questo libro di Tommaso Labranca, scrittore milanese tropo presto scomparso (nel 2016), è un atto d'amore. Un atto d'amore verso un film, il suo film preferito, il film che ha visto più volte nella sua vita. Il film in questione è la commedia Il vedovo (1959) di Dino Risi, con Alberto Sordi e Franca Valeri, al proposito del quale devo dire di non avere mai incontrato nessuno che non lo conoscesse.
Prima di scrivere questo libro, Labranca ha rivisto il film ancora diverse volte, o meglio, lo ha dissezionato, come ammette nel sottotitolo "Dissezionando Il vedovo", visionandolo fotogramma per fotogramma. In questo modo, lo scrittore - che non è un critico cinematografico di professione né aspira ad esserlo - analizza per il lettore il contesto nel quale il film fu realizzato ed in cui fu visto nelle sale cinematografiche. Dalla prima sequenza, ambientata ai piedi della Torre Velasca di Milano fino all'ultima che ha luogo durante il funerale del protagonista, lo scrittore rivela riferimenti culturali e cronachistici dei momenti più ricordati e mette in risalto i particolari meno noti. Tutti, per esempio, ci ricordiamo dell'appellativo con il quale l'Elvira si rivolge al marito («cretinetti!»), ma non tutti ricordano o sanno che la figura di questo spiantato industriale romano trasferitosi a Milano era ispirata a Giovanni Fenaroli, protagonista all'epoca di un celebre caso di cronaca nera.
A me, del Vedovo, erano sempre rimasti in mente la sequenza della veglia funebre nel casale di campagna, con la vecchietta seduta che ad ogni passaggio di Alberto Sordi mormora «era tanto bbuona!» e la frase finale della moglie rediviva «cosa fai, cretinetti, parli da solo?», nonché lo schiaffo di rabbia e frustrazione affibbiato dal protagonista all'allampanato giovanotto accompagnato dalla madre alla festa per il ritorno dell'Elvira.
Tommaso Labranca (1962-2016)
Labranca ci fa notare altri mille particolari significativi per inquadrare un'epoca, un modo di pensare, un momento e un luogo (il boom economico là dove inizia e dove più prospera) della storia italiana. Lo scrittore, con minuzia ma senza pedanteria, smonta le sequenze, le rimette in ordine cronologico laddove non lo sono, legge i giornali sfogliati dai personaggi e commenta le notizie su di essi riportate, analizza i vestiti indossati, le automobili guidate, le sigarette fumate e i quadri appesi alle pareti, per ricavarne elementi del carattere delle varie figure che si muovono nel film. Film che potrà anche essere squilibrato nella sua struttura, come diversi critici non hanno mancato di far notare, ma che conserva intatto tutto il proprio fascino satirico (nel vero senso della parola), anche quando, nel finale, prova a diventare meccanismo ad orologeria. Ed è interessante notare che, al pari di un altro film della stessa epoca (I soliti ignoti di Monicelli), il perfetto meccanismo escogitato dal protagonista fallisce perché è lasciato alla realizzazione di quattro incapaci, il Nardi stesso e i tre pasticcioni di cui si è circondato il medesimo megalomane protagonista: lo zio, il marchese Stucchi e il tecnico tedesco Fritzmayer. Questo di Labranca è un libro intelligente (che si apprezza anche nei punti in cui non si è d'accordo con l'autore), perché fornisce una miriade di spunti di riflessione e di motivi per rivedere ancora una volta ed apprezzare di nuovo il film di Risi con le disavventure del cretinetti per antonomasia.

Una scena del film "Il vedovo"

venerdì 2 agosto 2019

Sergio Arangino - Sigismondo Arquer. L'uomo che sfidò l'Inquisizione Spagnola, Arkadia, 2016


Sergio Arangino - Sigismondo Arquer. L'uomo che sfidò l'Inquisizione Spagnola, Arkadia, 2016.

Quando ci si appassiona alla Storia e si comincia a leggere libri che ne parlano, è difficile smettere, perché in ogni libro che espone un singolo argomento spuntano una miriade di altre storie che valgono la pena di essere approfondite. È un fenomeno per così dire di assuefazione, che capita molto spesso ad ogni vero appassionato di Storia. Negli ultimi tempi, mi è successo leggendo i libri della professoressa Elena Bonora, una studiosa che sa rendere interessantissima la materia del proprio approfondimento, al pari di altri grandi storici che si sono assunti l'onere di divulgare attraverso i libri le proprie conoscenze, primo fra tutti per comunicativa e simpatia il professor Alessandro Barbero. Di Elena Bonora ho recentemente letto due libri - che consiglio caldamente -: il primo, intitolato Aspettando l'imperatore, riguarda eminenti personaggi ecclesiastici che, poco prima della metà del Cinquecento, nella contesa tra l'imperatore Carlo V e il papa Paolo III Farnese, parteggiavano nettamente per il primo, più aperto (come loro) ad istanze di innovazione della Chiesa che, in quel di Trento, stava dibattendo su come reagire alla Riforma Protestante. Questo libro si incentrava in particolare sulle figure di due cardinali italiani che avevano incarnato queste loro speranze in Carlo V, il "Cardinale di Ravenna" Benedetto Accolti e il cardinale mantovano Ercole Gonzaga. Il secondo libro della Bonora che ho letto negli ultimi tempi si intitola Roma 1564. La congiura contro il papa e parla di un piano, sventato appena in tempo, per uccidere il papa Pio IV. Al centro di questa congiura c'era un cugino del Cardinale di Ravenna (che era morto a Firenze nel 1549), anch'egli di nome Benedetto Accolti, il quale, riconosciuto colpevole dell'attentato al papa (ed anche eretico), fu giustiziato a Roma all'inizio del 1565. Questo secondo Benedetto Accolti, del quale la Bonora ripercorre l'intera interessantissima vita, aveva in gioventù studiato all'Università di Pisa, dove era stato compagno di studi del brillantissimo giovane sardo Sigismondo Arquer, laureatosi in utroque iure presso l'ateneo pisano e subito dopo in teologia all'Università di Siena. Nel saggio di Elena Bonora si accenna a questo personaggio, dicendo che fu condannato al rogo dall'Inquisizione spagnola, per ipotizzare che ai tempi della comune frequentazione pisana anche Benedetto Accolti fosse entrato in contatto, in concomitanza con l'Arquer, con idee ereticali, in particolare attraverso il testo che è un po' la matrice del pensiero riformato in Italia, ovvero Il Beneficio di Cristo.
Su Sigismondo Arquer esiste una buona bibliografia, al culmine della quale arriva questo volume dello storico sardo Sergio Arangino, inevitabilmente colpito dalla figura del suo conterraneo, arso sul rogo a Toledo nel 1571, all'età di 41 anni, dopo ben otto anni di prigionia nelle carceri dell'Inquisizione spagnola. Discendente da una famiglia di alti funzionari della corona spagnola che all'epoca dominava la Sardegna, l'Arquer, laureatosi giovanissimo in discipline giuridiche, aveva ottenuto ben presto dalla monarchia spagnola importanti incarichi pubblici. Dopo che già suo padre si era trovato invischiato nelle lotte di potere che si svolgevano senza sosta sull'isola, anche lo stesso Sigismondo rimase coinvolto in queste beghe, pur senza perdere mai il favore del Re di Spagna Filippo II, che il giovane giurista sardo aveva conosciuto di persona durante un soggiorno del monarca a Bruxelles, quando era ancora principe ereditario. Proprio durante il viaggio per raggiungere la corte di Bruxelles, l'Arquer soggiornò per qualche tempo nella città riformata di Basilea, dove collaborò con l'umanista protestante Sebastian Münster, contribuendo con una sua storia della Sardegna all'opera cosmografica dell'intellettuale tedesco. In quest'opera, peraltro, Sigismondo esprimeva un giudizio molto duro sul clero sardo, descrivendolo come maggiormente intento a fare figli con le concubine che non ad istruirsi in materia dottrinaria. Oltre tutto l'Arquer aveva conosciuto in Sardegna il nobile spagnolo Gaspar de Centelles, che in Spagna sarà al centro di una conventicola di eretici e con il quale Sigismondo intratterrà una fitta corrispondenza ad oggetto teologico. Questi elementi biografici sono quelli che porteranno l'Arquer fino al rogo di Toledo, in quanto saranno i suoi nemici sardi a denunciarlo e saranno otto delle lettere che aveva scritto al Centelles a perderlo. Anche quest'ultimo, infatti, era stato arrestato dall'Inquisizione spagnola e giustiziato per eresia. Dunque, le lettere di un sospetto di eresia scritte ad un eretico condannato risultano ampiamente compromettenti per l'Arquer, considerando, soprattutto, che durante il suo processo, durato otto anni, muore l'avvocato difensore, mentre il teologo di fiducia, nominato dallo stesso Sigismondo, nel segreto delle sedute processuali, inizia a remare contro l'imputato, qualificando come eretiche molte delle proposizioni contenute nelle lettere dell'imputato. Tanto che se l'Arquer fu l'uomo che sfidò l'Inquisizione spagnola, non soltanto perse la sua battaglia, ma non fu nemmeno in grado di poter competere alla pari.

Elena Bonora, Aspettando l'imperatore. Principi italiani tra il papa e Carlo V, Einaudi, 2014
Elena Bonora, Roma 1564. La congiura contro il papa, Laterza, 2011

sabato 27 aprile 2019

Non ero Paolo Rossi - Enzo Scaini, la morte misteriosa di un calciatore dimenticato

Giampiero De Andreis - Emanuele Gatto, Non ero Paolo Rossi - Enzo Scaini, la morte misteriosa di un calciatore dimenticato, (Ed. Eraclea), 2018.

Chi era Enzo Scaini? Questo nome mi riporta ai tempi in cui collezionavo le figurine Panini dei calciatori: mi torna in mente un calciatore baffuto con la maglia biancorossa, probabilmente quella del Monza o quella del Perugia, società nelle quali Scaini ha militato durante la sua carriera. Queste figurine sono peraltro riportate nell'apparato iconografico del libro in questione. Enzo Scaini era una figurina piccola, di quelle dedicate alle squadre di Serie B, perché lui, purtroppo, a giocare in Serie A non è mai arrivato. Io non sapevo neanche che fosse morto, in circostanze mai del tutto chiarite, ad appena 27 anni, nel gennaio del 1983.

Scaini, nato in un paesino del Friuli nel 1955, già da bambino aveva mostrato le proprie doti da calciatore, fino ad essere inserito, ben presto, nel settore giovanile del Torino, società che lo aveva mandato a farsi le ossa in alcune squadre della provincia. Dopo le prima esperienze a Canelli, Scaini diventa un idolo della tifoseria del Sant'Angelo Lodigiano, dove viene notato dall'ambizioso Monza di fine anni Settanta e va a giocare in Brianza, sfiorando più volte, senza mai ottenerla, la promozione in Serie A. Le tappe successive della carriera di Scaini sono Campobasso in Serie C1, poi Verona e Perugia in B, dove vengono nuovamente frustrate le speranze di arrivare nella massima serie, fino all'approdo finale, ancora in C1, a Vicenza. Problemi al ginocchio, prima a Perugia e poi a Vicenza, spingono il calciatore a farsi operare, per due volte, dal professor Lamberto Perugia, uno dei migliori ortopedici sportivi degli anni Ottanta.
Il luminare dell'ortopedia del ginocchio opera Scaini la mattina del 21 gennaio 1983 e pochi minuti dopo la fine dell'operazione, intorno alle 10, il calciatore muore nella sua stanza della clinica Villa Bianca di Roma.
Senza raccontare i dettagli esposti nel libro, dico solo che il processo penale, che avrebbe dovuto fare luce sulla morte di un atleta di 27 anni, sposato, padre di due bambini, si conclude con l'assoluzione, arrivata dopo più di cinque anni dal fatto, di tutti gli imputati.
E quando la vedova di Scaini domanda all'avvocato Campana, presidente dell'Associazione Italiana Calciatori che tutelava in giudizio la famiglia del giovane, il perché di tanti ritardi nel processo e dei silenzi dei giornali (sportivi), si sente rispondere che suo marito «non era Paolo Rossi». La moglie del calciatore racconta peraltro questo episodio senza alcuna punta di rancore nei confronti del presidente dell'AIC, il quale si comportò bene nei confronti dei familiari, aiutandoli finanziariamente.
Bel libro, meritorio, che fa luce - o almeno ci prova, per quanto sia possibile, a 35 anni di distanza - su un caso, abbastanza lampante, di mancata giustizia. (7 aprile 2019)

sabato 8 dicembre 2018

Franco Cardini, Breve storia di Firenze


Franco Cardini, Breve storia di Firenze, 2018, Pacini Editore, pp. 152

Intendiamoci: per esaurire la storia della città di Firenze servirebbero altro che le 130 paginette di questo smilzo volume edito da Pacini. Perfino il minuscolo comune dal quale scrive il sottoscritto ha preteso diversi volumi per la narrazione della sua storia, che peraltro è quasi millenaria. Figuriamoci una città conosciuta nel mondo per la sua cultura e che per un certo periodo ha costituito una delle maggiori potenze economiche a livello europeo.

Lo storico fiorentino Franco Cardini, comunque, riesce a compendiare in un numero ragionevole di pagine una storia che conta circa duemila anni. Lo storico ripercorre le ascese e le cadute di Firenze, annoverandone le figure gloriose, ma senza risparmiare critiche, anche acute, ma sempre ponderate, ai propri concittadini di ogni tempo. Cardini si toglie lo sfizio di rivisitare qualche personaggio secondo schemi che possono sorprendere (secondo quanto si legge in questo libello, per esempio, Lorenzo de' Medici sarebbe stato assai poco "magnifico"), ma senza trascurare alcuno degli episodi notevoli e delle figure storiche - sebbene, per ovvie ragioni di spazio e di tempo, in via di compendio - che hanno reso il capoluogo toscano, obiettivamente, una delle città più importanti nella storia d'Europa.